Pubblichiamo nel nostro sito il ricordo di altre due
Vittime Illustri della mafia entrambe di Canicattì così
come il Giudice Rosario Livatino.
Si tratta di Antonino Saetta, Presidente della Prima
Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo, e del figlio Stefano
uccisi in un agguato mafioso la sera del 25 settembre 1988
con caratteristiche da autentica guerriglia. Gli investigatori conteranno
sull'asfalto un centinaio di bossoli di armi di grosso calibro e da
guerra.
Un duplice omicidio eccellente con tre finalità: uccidere il
più accreditato magistrato giudicante candidato a presiedere
il processo d'appello alla cupola mafiosa; vendicarsi dell'integerrima
condotta tenuta dal giudice in precedenti processi e gettare un avvertimento
ai colleghi superstiti. Obiettivi, almeno per qualche tempo, in gran
parte raggiunti.
Per rimediare ad un vuoto di conoscenza di queste due belle figure
e dell'alto Valore morale, etico e professionale dimostrato dal Presidente
Saetta, conscio dei pericoli cui andava incontro e cui era stato esposto,
utilizziamo uno scritto dell'avvocato Roberto Saetta,
figlio superstite assieme alla sorella Gabriella.
Antonino Saetta magistrato scomodo nemico dichiarato dei centri
di potere
di Roberto Saetta
Saetta Antonino. Magistrato canicattinese ucciso dalla mafia il 25
settembre del 1988. Uomo equilibrato ed integerrimo pagò con
la vita il rifiuto a piegarsi alle pressioni criminali che volevano
ribaltare in appello un verdetto contro la mafia di Palermo. E' stato
assassinato insieme al figlio Stefano. La sua morte è stata
però dimenticata, ed ogni anniversario diventa occasione per
cogliere con mano l'indifferenza che ha ricoperto questa tragica fine
di un servitore dello Stato.
Ecco una breve biografia di Antonino Saetta.
Mi si è chiesto di fornire alcune brevi notizie sulla vita,
e sull'uccisione del magistrato Antonino Saetta,
e del figlio Stefano, morto con lui.
E' un compito che, seppure mi riporti alla mente fatti dolorosi, svolgo
volentieri, nella convinzione che sia opportuno cercare di tener vivo
il ricordo di certi eventi e di certi uomini che sono caduti per difendere
interessi e valori della società civile tutta.
A maggior ragione l'informazione appare opportuna con riferimento
ad una vittima di mafia, quale Antonino Saetta, che è certamente
meno conosciuta e meno rievocata di altre consimili, pur essendo non
meno rilevante e significativa. Antonino Saetta nacque a Canicattì
il 25.10.22, terzo di cinque figli, da Stefano, maestro elementare,
e da Maddalena Lo Brutto, casalinga. Conseguita la maturità
classica presso il liceo ginnasio statale di Caltanissetta, si iscrisse
nel 1940 alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università
di Palermo.
Chiamato nel frattempo alle armi, partecipò al corso per allievi
ufficiali di complemento dell'esercito, che fu però interrotto
per la sopraggiunta cessazione delle ostilità. Dopo aver conseguita
la laurea in Giurisprudenza nel 1944, col massimo dei voti e la lode,
vinse il concorso per Uditore Giudiziario. Entrò in Magistratura
nel 1948, all'età di ventisei anni.
La sua prima sede di servizio fu Acqui Tenne (Al), in Piemonte. Nel
1952, sposò Luigia Pantano, farmacista, anch'essa di Canicattì.
Ad Acqui Tenne nacquero i figli Stefano e Gabriella.
Si trasferì poi, nel 1955, a Caltanissetta, ove, alcuni anni
dopo, nacque il terzo figlio, Roberto (chi scrive). Fu quindi a Palermo,
nel 1960, ed ivi svolse poi la maggior parte della carriera, occupandosi
prevalentemente di processi civili, salvo talune parentesi. Nel periodo
1969-71 fu Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca.
Negli anni 1976-78, fu Consigliere presso la Corte d'Assise d'Appello
di Genova, ove si occupò anche di taluni processi penali di
risonanza nazionale (Brigate Rosse; naufragio doloso Seagull). Nel
periodo 1985-86, ricoprì le funzioni di Presidente della Corte
d'Assise d'Appello di Caltanissetta. E qui si occupò, per la
prima volta nella sua carriera, di un importante processo di mafia,
quello relativo alla strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici,
ed i cui imputati erano, tra gli altri, i "Greco" di Ciaculli,
vertici indiscussi della mafia di allora, e pur tuttavia incensurati.
Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne
rispetto al giudizio di primo grado.
Antonino Saetta tornò poi definitivamente a Palermo, quale
Presidente della prima sezione della Corte d'Assise d'Appello.
E qui si occupò di altri importanti processi di mafia, ed in
particolare presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano
Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Giuseppe Puccio,
Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia. Il processo, che in primo grado
si era concluso con una sorprendente, e molto discussa, assoluzione,
decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla
massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati
sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati.
Pochi mesi dopo la conclusione del processo, e pochi giorni dopo il
deposito della motivazione della sentenza, il Presidente Antonino
Saetta fu assassinato, insieme con il figlio Stefano, il 25 Settembre
1988, sulla strada Agrigento - Caltanissetta, di ritorno a Palermo,
dopo avere assistito, a Canicattì, al battesimo di un nipotino.
L'inchiesta, pur essendo sin da subito chiara agli inquirenti la matrice
mafiosa dell'omicidio, era stata, in un primo tempo, archiviata a
carico di ignoti. In quegli anni, non era ancora stata introdotta
la legislazione sul pentitismo; e la quasi totalità degli omicidi
di mafia, anche di alte personalità dello Stato, rimanevano
prive di colpevoli e persino di imputati. Sette anni dopo, nel 1995,
grazie a nuovi elementi investigativi nel frattempo forniti da alcuni
collaboranti, e grazie anche al caparbio impegno e alla capacità
di due giovani pubblici ministeri presso la Procura della Repubblica
di Caltanissetta, che voglio ricordare, il dr. Antonino Di Matteo,
ed il dr. Gilberto Ganassi, si poté riaprire l'inchiesta.
I responsabili della duplice uccisione vennero individuati in Totò
Riina, Francesco Madonia, e Pietro Ribisi. I primi due, capi indiscussi
della mafia palermitana, e della cosiddetta cupola, come mandanti;
il terzo, Ribisi, esponente di una sanguinaria famiglia mafiosa di
Palma Montechiaro, quale esecutore, insieme con altri criminali, nel
frattempo uccisi. I tre imputati sono stati processati e condannati
all'ergastolo, dalla Corte d'Assise di Caltanissetta. Il verdetto,
confermato anche nei successivi gradi di giudizio, è ormai
passato in giudicato. Antonino Saetta rappresentava un obiettivo di
primaria importanza per la mafia, un obiettivo da eliminare necessariamente.
Per raggiungere il quale, ebbero a convergere le forze di due articolazioni
territoriali della mafia: quella palermitana, e quella agrigentina.
I processi di mafia presieduti da Antonino Saetta avevano riguardato
prevalentemente se non esclusivamente la mafia di Palermo, che risulta
mandante dell'assassinio.
L'esecuzione materiale dello stesso viene però affidata alla
mafia dell'agrigentino, con la consegna di occuparsene in quel territorio.
Ciò, in parte, è stato determinato da ragioni di maggior
sicurezza operativa: nessun rischio presentava infatti un agguato
a quel magistrato, nel momento in cui, in compagnia soltanto del figlio,
ritornava a Palermo, da Canicattì, in tarda serata, su una
normale vettura, e senza scorta, in un tratto di strada poco trafficata
e circondata dalla campagna. Si conseguiva, inoltre, il vantaggio
ulteriore di confondere le acque agli inquirenti.
Ma il motivo principale di quella scelta era un altro: risulta, dagli
atti processuali, che la mafia dell'agrigentino, il cui capo indiscusso
era, allora, il canicattinese Peppe Di Caro, poi ucciso, abbia volentieri
accettato di occuparsi dell'esecuzione materiale di quell'assassinio,
per acquisire maggior prestigio all'interno dell'organizzazione e,
soprattutto, per stringere più forti rapporti di alleanza con
le cosche dominanti del palermitano.
La collaborazione tra la mafia palermitana e quella agrigentina serviva
anche a dare un segnale di compattezza, e di risolutezza, tanto più
necessario per il significato dirompente di quell'evento: per la prima
volta si uccideva un magistrato "giudicante", un organo
che, per definizione, non è antagonista rispetto al reo, come
lo è invece un magistrato inquirente, ma si colloca in una
posizione super partes, di terzietà e di garanzia, tra l'accusa
e la difesa, e pronunzia il suo verdetto, in nome del Popolo Italiano,
sulla base degli elementi processuali forniti dall'una e dall'altra.
Con l'uccisione di Antonino Saetta si compiva un tragico salto di
qualità: chiunque amministrava giustizia, ledendo interessi
mafiosi adesso avrebbe potuto sentirsi in pericolo di vita.
L'effetto intimidatorio che ne scaturì negli anni successivi
- effetto assolutamente voluto - fu esteso e ben evidente, come espressamente
è stato scritto nella relazione finale della commissione parlamentare
antimafia, presieduta dal sen. Violante, e si concretizzò in
una lunga sequela di ingiustificabili assoluzioni. La gravita di quell'omicidio
fu per la verità, sin dall'inizio, chiara agli operatori giuridici
e alle autorità istituzionali: ai funerali di Antonino e Stefano
Saetta, a Canicattì, volle partecipare, accanto al Capo dello
Stato, a Ministri, a Segretari di partito, anche l'intero Consiglio
Superiore della Magistratura, fatto questo che mai si era verificato
prima, in casi analoghi, né mai si verificò dopo, neppure
dopo le stragi del 1992.
Ma perché la mafia decise di uccidere un magistrato così
poco noto alle cronache come Antonino Saetta?
Innanzitutto, per quello che egli aveva già fatto. Negli ultimi
anni di vita, come s'è detto, si era occupato, quale Presidente
di sezione di Corte d'Assise d'Appello, di due fondamentali processi
di mafia: quello relativo all'uccisione del giudice Chinnici, contro
i Greco di Ciaculli, e il processo relativo all'omicidio del capitano
dei carabinieri Basile, contro i boss emergenti Puccio, Bonanno e
Madonia. Entrambi questi processi, condotti con mano ferma, si conclusero
con la condanna all'ergastolo degli imputati, e, particolare che va
ricordato, con l'aumento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio
di 1° grado; invertendo così una comune ma ingiustificata
prassi giudiziaria che ci aveva abituati a vedere le sentenze di appello
quasi sempre più miti e indulgenti di quelle di primo grado.
Il processo Basile fu l'ultimo processo presieduto da mio padre: il
dispositivo venne letto poche settimane prima della sua uccisione.
E' probabile che un movente di ritorsione vi fosse, per il modo rigoroso
e inflessibile con il quale il processo fu presieduto, sottraendolo
a pesanti condizionamenti criminali.
Ma certamente non vi fu solo ritorsione. Antonino Saetta fu ucciso
anche, o soprattutto, per quel che avrebbe potuto fare quale probabile
presidente, come correva voce, del maxiprocesso d'appello contro la
mafia. La quale non poteva gradire per quell'incarico un giudice che
si era dimostrato non influenzabile in alcun modo e non suscettibile
di intimidazione. Il movente dell'assassinio è stato quindi
triplice: "punire" un magistrato che, per la sua fermezza
nel condurre il processo Basile, e, prima, il processo Chinnici, aveva
reso vane le forti pressioni mafiose esercitate; "ammansire",
con un' uccisione eclatante, gli altri magistrati giudicanti allora
impegnati in importanti processi di mafia; "prevenire" la
probabile nomina di un magistrato ostico, quale Antonino Saetta, a
Presidente del maxiprocesso d'Appello alla mafia
.
Antonino Saetta era un magistrato schivo e riservato, per indole e
per scelta di vita. Un giudice che, come tanti, ma non come tutti,
aveva fatto carriera lontano dai centri di potere, palesi od occulti.
Un giudice che, come il conterraneo Rosario Livatino, evitava la frequentazione
dei politici, non per banali pregiudizi nei loro confronti, ma per
far sì che non si determinassero indebite interferenze, magari
inconsce, sul suo operato. Un giudice che però, dopo la sua
tragica fine, è stato spesso dimenticato. Al punto che la sua
figura, e persino il suo nome, sono ormai sconosciuti a tanti, soprattutto
ai più giovani. All'oblio hanno concorso vari fattori: anzitutto,
la sua poca notorietà da vivo, determinata in parte dalle funzioni
che svolgeva, che erano funzioni "giudicanti", solitamente
poco illuminate dai riflettori delle telecamere.
In secondo luogo, la sua naturale riservatezza, che dovrebbe essere
tuttavia una virtù o un dovere per ogni magistrato. Probabilmente
ha contribuito anche il luogo scelto per l'omicidio, un luogo lontano
da Palermo, città ove era la sua residenza e ove svolgeva la
sua attività. Ancora più sconosciuta è la figura
del figlio Stefano, morto con lui, all'età di 35 anni. Talmente
sconosciuta che, in quel mediocre film intitolato "Il Giudice
Ragazzino", film che non è piaciuto neanche ai genitori
di Rosario Livatino, Stefano viene incomprensibilmente rappresentato
come un disabile allo stato vegetativo sulla sedia a rotelle, quando
invece era un giovane fisicamente sano, e addirittura sportivo: era
un ottimo nuotatore, faceva spesso lunghe camminate, e talvolta giocava
pure a calcio.
Aveva avuto dei disturbi psichici, dai quali però era sostanzialmente
guarito già diversi anni prima della morte.
La conoscenza della vicenda di Antonino e Stefano Saetta è
indispensabile per chiunque voglia realmente comprendere cosa sia
stata la lotta alla mafia negli ultimi venti anni, e quale sia stato
il livello dello scontro. Ritengo che, prima o poi, a differenza di
quel che sinora è avvenuto, gli operatori culturali, gli studiosi,
il mondo accademico, si soffermeranno più ampiamente su questa
vicenda, che ha caratteristiche di gravità unica: unica perché,
per la prima e sinora unica volta, è stato ucciso un magistrato
giudicante; e unica perché, per la prima e unica volta, insieme
con il magistrato da uccidere, è stato ucciso anche suo figlio.